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Triangle of Sadness

2022, 142min.

di Ruben Östlund

con Charlbi Dean, Harris Dickinson, Dolly De Leon, Woody Harrelson


Recensione di Valentina Corona


Spoilerometro:



Il “triangolo della tristezza” è la parte del viso compresa tra le arcate sopraccigliari che al giovane Carl viene chiesto di rilassare durante il provino da fotomodello in cui si sta cimentando nelle prime inquadrature – in buona sostanza, una sorta di correlativo oggettivo della bellezza come merce. All’avvenente Carl, insieme alla fidanzata Yaya, è dedicato infatti il primo capitolo di Triangle of Sadness, a cui fanno seguito altri due, denominati rispettivamente “Lo yatch” e “L’isola”. Sembra quasi di trovarsi davanti a uno dei dialoghi di Forza maggiore (Turist) quando Yaya, affermata influencer, finge di non vedere arrivare il conto al tavolo del lussuoso ristorante in cui si trova col partner: «Parlare di denaro non è sexy», dice lei, mentre Carl rivendica in modo goffo e disperato il proprio desiderio di vivere una relazione all’infuori dagli stereotipi di genere.


Quando, nel secondo capitolo, Carl e Yaya si imbarcano su una crociera per ricchissimi, le atmosfere, però, virano rapidamente verso i toni dissacranti a cui ci aveva già abituati The Square (nel 2017 il film valse a Östlund la prima Palma d’oro della sua carriera). Sull’imbarcazione i membri dell’equipaggio agiscono in nome del comfort a tutti i costi degli ospiti a bordo, obbligati come sono a rispondere di sì a ogni genere di richiesta provenga da loro, persino quando si tratta di interrompere il proprio turno lavorativo per fare un bagno in mare. Mentre i turisti vengono ritratti in preda all’idiozia e all’incoerenza delle loro azioni, ci pensa la natura a sovvertire l’assetto apparentemente immutabile del ring che contrappone i ricchi ai poveri: in una notte di mare in tempesta la cena col capitano – un Woody Harrelson marxista – si trasforma in un incubo per i partecipanti, impietosamente (e minuziosamente) ritratti nel corso di attacchi di vomito e diarrea, laddove i membri dell’equipaggio sparecchiano indisturbati, immuni al mal di mare.


Se l’intento dello svedese fosse stato solo di fare ridere lo spettatore gli sarebbe bastato fermarsi qui – le esilaranti scene del vomito entreranno indubbiamente nella storia del cinema –, ma un terzo capitolo gli consente di sovvertire i rapporti di potere che vigono sullo yatch (e nel nostro mondo) e di riflettere sugli effetti sociali del capovolgimento. È così che, dopo l’esplosione di una granata a bordo, alcuni naufraghi approdano su un’isola deserta, dove a nulla valgono il denaro e la bellezza e l’unica risorsa realmente utile è la capacità di stare al mondo, di cui i ricchi appaiono tragicomicamente sprovvisti. In questo nuovo scenario emergerà la supremazia dell’ex signora delle pulizie Abigail, che imporrà la sua egemonia a tutti i sopravvissuti.


Per sua stessa ammissione, Östlund è un appassionato osservatore del fallimento dell’uomo in società; in questo senso, definire Triangle of Sadness un film satirico che mette alla berlina i comportamenti dei ricchi del ventunesimo secolo, che pure del fallimento dell’uomo sociale sono uno degli esempi più lampanti, non renderebbe piena ragione delle intenzioni del regista. Il dilemma proposto da Östlund, in fondo, è anche questa volta morale: l’obiettivo diventa chiaro allo spettatore che si confronta col finale aperto del film, mentre piuttosto che tentare di capire cosa stia succedendo si domanda cosa desidera che fosse accaduto.

Qualcuno penserà che il vomito dei ricchi non valeva allo svedese la seconda Palma d’oro, eppure Triangle of Sadness è senza dubbio un film inedito e geniale. Si tratta di un successo macchiato tuttavia dalla morte improvvisa di Charlbi Dean (Yaya), avvenuta pochi mesi dopo la vittoria.


Voto: 4/5

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