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Bohemian Rhapsody

2018, 135 min.

di Bryan Singer

con Rami Malek, Lucy Boynton, Ben Hardy


Recensione di Cristiano Lo Presti


Spoilerometro:



Per il sottoscritto i biopic generalmente sono un tasto dolente, perché difficilmente riesco a guardarli senza domandarmi quanto effettivamente ci sia di vero in ciò che ci viene mostrato, quanto venga gonfiato o edulcorato per rendere più o meno mitologica l’aurea attorno al protagonista. Quanto sia onesta, dunque, la narrazione.

Benché si tratti di un film, e non di un documentario, è bene ricordarsi che il prefisso “bio” implica la natura biografica del progetto. Ecco, io da un film biografico mi aspetto come minimo che mi racconti la verità; se facendolo riesce anche ad alimentare un mito (effetto che trovo assolutamente irrilevante, ma solitamente sembra essere la priorità di tali operazioni, altro che raccontare storie) ben venga, ma prima di tutto le informazioni contenute in una biografia dovrebbero essere corrette, specialmente se se ne giustifica l’esistenza con l’intenzione di far conoscere ad una platea quanto più ampia possibile la storia di un personaggio.



Vediamo dunque com’è questo film dedicato al frontman dei Queen, Freddie Mercury, partendo dall’elefante nella stanza.

Il racconto dell’epopea del cantante nato a Zanzibar parte all’incirca dall’incontro con Brian May e Roger Taylor, rispettivamente chitarrista e batterista dei Queen, e si conclude al Live Aid del 1985 (chissà poi perché), ed è stracolmo di inesattezze grosse, enormi, spropositate. Dalle imprecisioni riguardanti la cronologia di uscita di singoli e album, che per molti possono essere qualcosa di trascurabile, a scelte veramente gravi attuate al solo scopo di rendere forse più emozionante la narrazione, come se la storia del personaggio di cui stai raccontando la vita (o una parte di essa) possa essere riscritta a piacere.

Vi faccio l’esempio più clamoroso: malgrado Freddie Mercury abbia pubblicato degli (orribili) album da solista negli anni ’80 (cosa che fece già prima di lui Roger Taylor), la cosa non fu affatto causa di uno scioglimento della band, che in quel periodo continuò a pubblicare album con una certa regolarità. E i concerti? Davvero quando suonarono al Live Aid non ne facevano da molto tempo? No. Assolutamente no. Un esempio? Il più famoso, storico, concerto dei Queen a Rio risale allo stesso anno, precedendolo giusto di qualche mese.

E cosa dire dell’Aids? Mercury scoprì di averlo tra uno e due anni dopo il Live Aid, ma sono certo che farglielo annunciare alla band alla prima (falsa) riunione per prepararsi per il loro primo (falso) concerto dopo molto tempo la rendesse una cosa più commovente.

Se vuoi piegare la realtà dei fatti in funzione di un maggiore impatto narrativo, non fare un film biografico. Fai piuttosto un film “ispirato alla figura di” come ha fatto Todd Haynes con Velvet Goldmine (David Bowie) e Io non sono qui (Bob Dylan), o comunque senza alcuna pretesa biografica come C’era una volta… ad Hollywood di Tarantino (Sharon Tate).

Già per tutto questo, per me, meriterebbe un voto bassissimo.



Stupirebbe un po’ che tra i produttori figurino ben due membri della band, non fosse per la loro evidente incapacità di lasciarsi il passato alle spalle, almeno artisticamente parlando, come dimostrato dal loro continuare a mungere la vacca anche da morta.

Che dire, invece, del film in sé? È un film sufficientemente buono e godibile, volendo, nonostante sia fasullo, retorico e mistificatorio come quasi ogni biopic (in)degno di questo nome. Ma è come non pensare all’elefante.

Bohemian Rhapsody ha vinto il Golden Globe come miglior film drammatico nel 2019, e questo sì che è, ironicamente, straordinariamente drammatico.


 

Voto: 2/5

 

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