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The Life of Chuck

  • traumfabrikblog
  • 6 nov
  • Tempo di lettura: 4 min

2024, 110 min.

di Mike Flanagan

con Tom Hiddleston, Jacob Tremblay, Karen Gillan, Mark Hamill


Recensione di Francesco Mosca


Spoilerometro:

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The life of Chuck è il titolo dell’ultimo lavoro del regista americano Mike Flanagan, tratto dal racconto omonimo di Stephen King, contenuto nella raccolta di racconti Se scorre il sangue pubblicata nel 2020.

Mike Flanagan prende in mano il racconto di Stephen King e lo trasforma in qualcosa di più di una semplice trasposizione: è una meditazione cinematografica sulla memoria, sulla responsabilità e sul modo in cui le piccole vite producono (e consumano) i grandi racconti. Il film non si limita a “raccontare” la vita di Chuck: la disseziona, ne mostra il basso continuo di decisioni ordinarie e il riverbero che queste hanno sulle persone intorno a lui. Questo scavo intimo è, paradossalmente, ciò che lo rende profondamente “kinghiano”: non tanto per salti formali o shock visivi, quanto per l’attenzione alle conseguenze morali delle azioni e al peso della quotidianità.

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Il significato profondo dell’opera sta nella tensione tra estremamente privato e universale. Chuck è allo stesso tempo individuo e simbolo: nel corso della narrazione la sua esistenza diventa luogo, un’isola di ricordi che più persone abitano e reinterpretano (esattamente come nel poema Canto di me stesso di Walt Whitman, fonte d’ispirazione originale del racconto kinghiano). Flanagan sfrutta il linguaggio filmico per materializzare la memoria: dissolvenze che somigliano a lacrime, flash che trattengono l’aria prima che qualcosa cambi e una costruzione temporale non lineare che obbliga lo spettatore a ricomporre i tasselli. Ne deriva la sensazione di assistere a una vita come la riassemblano i racconti degli altri e, soprattutto, come muta quando la si racconta più volte.

Rispetto al racconto originale di Stephen King, Flanagan compie una scelta di fedeltà “spirituale” più che puntuale. Lì dove l’autore proponeva un ritmo da novella (con pause in cui il lettore trova il proprio spazio immaginativo) il film aggiunge dettagli, allunga certi silenzi e visualizza emozioni che nel testo restano spesso sotterranee. Questo non è un tradimento: è un’interpretazione. Flanagan non traduce parola per parola, ma prende il nucleo emotivo del racconto (la malinconia, la tenerezza e l’irriducibile crudeltà della vita) e lo rende visibile. In questo processo, alcune figure secondarie si ampliano, la geografia emotiva si fa più netta e il finale acquista una risonanza cinematografica nuova, che dialoga con il materiale originale senza sovrastarlo.

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È interessante leggere Flanagan come “erede” di una linea registica che, nel tempo, ha ridefinito le trasposizioni di King e che passa da Rob Reiner prima e Frank Darabont poi, per giungere fino ai cineasti contemporanei. Reiner, con Stand By Me, catturava il cuore del racconto di formazione: senso di comunità, perdita dell’innocenza, nostalgia per l’infanzia. La sua forza stava nella naturalezza delle relazioni e nella capacità di far vibrare il quotidiano come se fosse mitologia. Darabont, invece, mostrava come la fedeltà letteraria possa servire una visione cinematografica potente (Le ali della libertà, The Mist): comprendeva l’ossatura morale delle storie di King e la traduceva in immagini capaci di restare nella memoria. Flanagan raccoglie da entrambi qualcosa di essenziale: da Reiner l’empatia per i rapporti umani, per i dettagli che rendono vivi i personaggi; da Darabont la volontà di preservare il “cuore” della fonte letteraria, traducendolo in cinema che non si accontenta di spaventare ma vuole commuovere e far pensare.

Tuttavia, il paragone non è conservativo: Flanagan porta con sé sensibilità contemporanee. A differenza dei due maestri, il suo cinema è spesso più ossessionato dalla forma narrativa stessa, cioè dal come raccontiamo e dalla contaminazione tra horror e melodramma. In questo senso è affine a registi contemporanei che si sono cimentati con King, come Andy Muschietti. Quest’ultimo ha preso un capolavoro del terrore popolare (It) e lo ha trasformato in un grande spettacolo emotivo giocando su scala, nostalgia e spettro collettivo, sebbene il risultato, in questo caso, non rispetti le enormi aspettative che si celano dietro il capolavoro dello scrittore. Flanagan fa qualcosa di simile ma su scala ridotta: invece del grande tableau si concentra sul microcosmo, sull’economia affettiva di un singolo uomo e sulla sua eco nella comunità. Dove Muschietti espande il mito fino a farne carnefice e festa, Flanagan fa del limite (la stanza, la casa, il ricordo) la vera arena del conflitto.

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Tecnicamente, il film dimostra la maturità registica di Flanagan: controllo del tono, montaggio attento a restituire il peso dei silenzi, uso della colonna sonora come elemento narrativo. Ma la cosa che colpisce è la delicatezza: in un’opera che poteva facilmente scivolare nell’epica melodrammatica o nella retorica, Flanagan sceglie invece il tratto umano e la misura. Il risultato è un adattamento che non compete con il testo di King su un terreno di fedeltà totale, bensì condivide con esso la stessa inquietudine morale e la stessa compassione per i personaggi.

In definitiva, The Life of Chuck non è solo una buona trasposizione di Stephen King: è un esempio di come adattare un racconto significhi tradirlo con onestà, scomporlo per trovarne il battito segreto e restituirlo in un linguaggio diverso. Mike Flanagan conferma la sua posizione nel panorama dei cineasti che meglio hanno interpretato King: non un semplice epigono, ma un erede che rinnova la tradizione di Reiner e Darabont, aprendola alle necessità emotive e formali del presente, e che offre una delle letture più intime e dolorosamente vere del canone kinghiano.



Voto 4/5

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